«Il forno, quando si faceva il pane, mandava un bagliore d’aurora contro il cielo, formicolante di stelle; si destava all’improvviso la fornaia, addormentata con la pala in mano; sbirciava dentro: oh, miracolo! Vedeva tutta l’immensa bocca, piena degli anelli d’oro, odoroso delle ciambelle.
Si diffondeva un’aria di domenica» (Corrado Govoni, Casa paterna).
Una poesia del pane. E parimenti l’aura del pane, nella forma delle «coppie», si ritrova nei dipinti ferraresi di De Chirico, come Il saluto dell’amico lontano del 1916, in cui appare anche il biscotto crumiro. L’amico lontano è il mercante Paul Guillaume, cui De Chirico idealmente invia il dipinto a Parigi. Riccardo Bacchelli, ne Il mulino del Po, scrive: «Il luogo dove si fece sempre il miglior pane del mondo, ch’è il ferrarese». Per conoscere il fiume e i mugnai, come fu mio nonno, raccontato da mio padre nel suo libro Lungo l’argine del tempo, Bacchelli era solito fermarsi per ore sugli argini e nelle golene, meditando a storie e leggende. I mulini ad acqua lungo il fiume, un tempo, erano numerosi; oggi non ce n’è quasi più traccia. A Ro Ferrarese troviamo una fedele ricostruzione di uno di questi mulini. Da qui, dal mulino, si può risalire alla storia della coppia, il vecchio pane ferrarese che nasce sulla riva del Po. L’abitato di Ro, con l’antico borgo, in origine dominio degli Estensi, sorge sulla sponda destra del Po e nei secoli passati ha subito più volte le inondazioni del fiume. L’economia è fondata sulla produzione di cereali, e, più recentemente, sul turismo: sono luoghi incantati sospesi tra terra e acqua. Il mulino è stato ricostruito dal Comune sul progetto del 1850: poggia in acqua su due scafi detti sandoni; una ruota a pale di legno è azionata dalla corrente del fiume, e a essa si collega una macina di granito. Bacchelli ritorna alle ciupete ferraresi in un articolo sul Corriere della Sera il 9 novembre 1958: «Il pane ferrarese è un capolavoro di eleganza, di ingegnosità e di sapore che allieta l’occhio e persuade il gusto». Quel pane, entrato nella letteratura e nella pittura, è poesia, ma ancora oggi non conosciamo l’origine esatta della forma a coppietta, con i curnit (crostini). In una norma degli Statuta Ferrariae del 1278 si legge: «Ordiniamo che i fornai siano obbligati a fare pani che abbiano orletti e che non si abbassino quando cuociono». Sul finire del XIII secolo e con l’inizio del XIV si introducono nuove raffinatezze perché il pane abbia un aspetto ancor più aggraziato. Osservando gli affreschi dell’Abbazia di Pomposa, notiamo due pagnottelle unite che ricordano molto il corpo centrale della coppia. Mentre nei mesi di Schifanoia, ove è minuziosamente descritta la vita ferrarese del Quattrocento, non si vedono tracce del pane con cornetti. Per trovare notizia del pane ferrarese nella forma a coppia dobbiamo aspettare il carnevale del 1536. In una cena in onore del Duca di Ferrara fu presentato un pane ritorto. Ne dà testimonianza certa il celebre cuoco di corte Cristoforo da Messisbugo nel suo Libro novo nel qual s’insegna à far d’ogni sorte di vivanda secondo la diversità de i tempi, cosi di carne come di pesce. Et il modo d’ordinar banchetti, apparecchiar tavole, fornir palazzi, et ornar camere … Opera … / hora di novo corretta … Aggiontovi di nuovo, il modo di saper tagliare ogni sorte di carne, et uccellami. Nel 1791, dell’ormai famoso pane parla lo storico Antonio Frizzi nelle Memorie per la Storia di Ferrara. Ancora, nella sala dell’Arengo in Palazzo del Comune, Achille Funi e Felicita Frai, illustrando l’Orlando furioso tra 1934 e 1938, hanno dipinto, dopo le memorabili di De Chirico, due inconfondibili coppiette.
Ferrara si identifica nel suo pane, in quel profumo, in quel tepore rassicurante, in quel fragore croccante, con la crosta esterna e la mollica interna, duro e morbido. Strutturato come un’architettura, un incrocio di colonne tortili, plasmato come una terracotta, controcanto dei rilievi di cotto sui cornicioni, le porte e le finestre degli edifici in laterizio. Appaiono semplici, e anche rozzi, come blocchi di pietra o sassi, i pani, pur fragranti e profumati, di altri borghi e contrade d’Italia, se si esclude la Sicilia, dove i pani di San Giuseppe a Salemi sono vere e proprie sculture che si inerpicano su motivi decorativi, fiori e frutti, modellati in pietra tenera, emulando il barocco di Noto o di Ragusa Ibla. E gli archi di pane di San Biagio Platani, con le forme di pane trattate come rilievi policromi, di grande effetto, a scandire la contrapposizione delle confraternite dei Madunnara e dei Signurara, devote l’una alla Madonna e l’altra a Gesù Cristo. Nella consapevolezza che uno degli alimenti fondamentali della dieta umana è il pane, «dono generoso della natura, un cibo che non può essere sostituito», così com’è definito da Antoine Auguste Parmentier, nel 1772. La parte più importante è la fantasia architettonica dagli archi centrali, sotto i quali, in un ludibrio di sculture fatte di forme di pane, la domenica di Pasqua avviene l’incontro tra Gesù risorto e la Madonna. Di anno in anno, viene cambiata l’estetica del corso, mentre resta invariata la struttura architettonica, costituita dall’entrata, dal viale e dall’arco. L’entrata rappresenta la facciata di una chiesa, il viale ne è la navata e l’arco, opposto all’entrata, è l’abside della chiesa stessa. Il significato religioso degli archi di Pasqua è molto evidente, intendendo rappresentare il trionfo di Cristo sulla morte, e si torna così alle simbologie religiose del sacramento dell’Eucarestia. Mentre il pane di Ferrara è solo terreno, profano, immanente, non rappresenta che se stesso. Il pane è bene per sé, celebra l’uomo. Non avrai altro pane.
Vittorio Sgarbi
Tratto da: Il Giornale del 10 ottobre 2019
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