“…Evacuavano i “trasporti” nei pressi di Vienna. Tremila internati debbono lasciare Wiener–Neudorf. Ve n’è un centinaio nell’infermeria. Il comandante del “trasporto” conta gli uomini pronti a partire e dice “chi è malato e non si sente di camminare lo dichiari subito, dovremo fare una marcia di 200 chilometri e dovete camminare in fretta. Per i malati abbiamo dei camion, però che siano dei malati veri, se sono dei simulatori li liquideremo”. Un centinaio di uomini, più stremati, si fecero avanti, gli altri partirono. I malati dell’infermeria e coloro che non si sentivano di camminare non hanno avuto bisogno di camion; sono stati ammazzati tutti. E così avvenne in dieci, in cento altri posti.
Arriva alla stazione di Mauthausen un treno con 2700 ebrei evacuati dal campo di Grossrosen. “Il campo è pieno, mandiamoli direttamente al trasporto di Ebensee”, dice il comandante. E il treno riparte e impiega altri sei giorni per fare 100 chilometri di strada; altri sei giorni senza mangiare e senza bere, in 130 in un vagone scoperto. A Ebensee il treno arriva il 1. marzo. I 2700 sono ormai ridotti a 2000. Un gruppo di impiegati è inviato a Mauthausen a registrarli. Quando abbiamo finito di registrarli contiamo i fogli: la registrazione è durata un giorno, gli arrivati vivi sono ora 1.900. Questi stessi uomini il giorno dopo sono mandati a lavorare nel tunnel: a fine marzo i superstiti si contano sulle dita della mano.
Arrivano gli uomini e arrivano anche le donne, per la prima volta nella vita di Mauthausen. Il campo femminile di Auschwitz ne contava 14.000, il campo di Rawensbruck 30.000. Ne arriva qualche migliaio. E le altre, chi lo sa?
Verso altri campi, verso la morte. Anche esse hanno le loro “capo blocco”; per noi i banditi, per loro le prostitute; per noi le bastonate e per loro le frustate. Arrivano, le ammonticchiano nei blocchi di quarantena e pochi giorni dopo il primo gruppo è mandato a lavorare, a riparare una linea ferroviaria bombardata. Sono degli scheletri viventi che debbono andare a spostare traverse e rotaie. Le alloggiano nei ruderi stessi della stazione che è bombardata giorno e notte. Partite in 500, tornano dopo 3 giorni in 350, le altre sono morte sotto le bombe, di stenti, o di fatica.
I nazi si convincono che il loro lavoro non rende nulla. Da allora ogni giorno partono convogli di uomini a lavorare, a riparare le ferrovie sotto i bombardamenti, a costruire febbrilmente tunnel per le “Reichsbahn”. Partono e ogni giorno arrivano agli uffici del campo le lunghe liste: in questo “trasporto” in data di oggi sono morti i seguenti detenuti, è scritto in cima alla lista…”
Sarah Dean per “Mail On Line”
I prigionieri di Mauthausen, in Austria, erano costretti a salire 186 gradini portando blocchi di granito da 50 kg per 12 ore al giorno, senza un minuto di riposo. Dovevano lavorare fino alla morte, spesso collassavano sul posto o cadevano e si portavano dietro gli altri, in un effetto domino.
Il sopravvissuto Christian Bernadac racconta nel suo libro ‘I 186 scalini’, che i gradini erano tutti diversi, scolpiti quasi a caso nella roccia, di misura e altezze diverse, quindi difficili sia da salire che da scendere, soprattutto con quei sandali scivolosi. Le guardie chiedevano ai prigionieri se volevano riposarsi, e se qualcuno rispondeva di sì, veniva ucciso.
Il sadismo delle SS era incredibile. A volte chiedevano ai prigionieri di fare la salita più rapidamente e giunti in cima, alcuni venivano allineati sul bordo del precipizio, conosciuto come ‘il muro dei paracadutisti’, e costretti a scegliere se ricevere un colpo di pistola o gettare di sotto il prigioniero accanto
Certi prigionieri, non sopportando le torture, sceglievano di suicidarsi. Tra il 1939 e il 1945 lì morirono fino a 320.000 persone. Se anche sopravvivevano al lavoro duro, le SS trovavano altri modi per ammazzarle. Si moriva di fame, di stanchezza, impiccati, fulminati, annegati. Circa 3000 morirono di ipotermia dopo essere stati costretti a fare una doccia gelata e a restare fuori dalle baracche.
Mauthausen, 20 km a est di Linz, aveva le peggiori condizioni detentive dell’epoca. Qui arrivavano criminali tedeschi e austriaci, prigionieri politici, omosessuali, testimoni di Geova, zingari, ebrei, polacchi, rifugiati della guerra civile spagnola, sovietici, resistenti francesi.
Sessantamila anime ammassate, inclusi anziani, donne e bambini. Il camino del crematorio fumava giorno e notte. Le condizioni sanitarie erano al minimo, e fa paura la foto dell’epidemia di tifo che colpì il campo. Oggi i 186 gradini sono stati riparati e livellati, in modo che i turisti possano ripercorrerli senza rischi.
IL SILENZIO DI DIO
Il tema del silenzio e dell’assenza di Dio davanti alle sofferenze dell’umanità è salito improvvisamente alla ribalta per un motivo quasi casuale, un recente intervento del Papa che lo ha affrontato nel corso di un’omelia. Parlare di quest’argomento ha sorpreso un po’ tutti, sia per la natura del tema, così difficile e speciale, che per la forza con cui è stato trattato. Ma per la sensibilità ebraica non si è trattato di una novità né di una sorpresa. E’ un tema importante della teologia biblica che viene costantemente ripreso ed elaborato nel corso della storia e che davanti a fenomeni di particolare gravità, come la Shoà, esplode travolgendo le coscienze.
Esaminando le pagine bibliche si può vedere come l’interrogativo sulla presenza divina accompagni la storia ebraica dal momento stesso in cui nasce come popolo. La Bibbia cerca di dare qualche risposta, anche molto precisa a questa domanda terribile, ma la questione evidentemente non è semplice da risolvere per le coscienze turbate. Il tema trova espressione in una grande metafora antropomorfica, quella del panim, del volto divino. Nel rapporto tra esseri umani guardarsi in faccia è un modo di comunicare, anche se non necessariamente benevolo, mentre volgersi la faccia, rivoltarsi, è segno di chiusura, di interruzione, di comunicazione, di rifiuto. Sono pertanto sinonimo di speciale benedizione, simpatia, protezione, benevolenza le espressioni iaer haShem panaw elekha e issà haShem panaw elekha, “che il Signore illumini e volga te il suo volto”, che compaiono nella benedizione sacerdotale di Numeri 6:25-26, che quotidianamente ripetiamo nella nostra liturgia. Al contrario è il celarsi, il nascondersi del volto divino il segno di allontanamento.
Leggiamo in proposito un brano fondamentale:
” La mia ira divamperà contro di lui in quel giorno e li abbandonerò e nasconderò loro il mio volto (letteralmente: mi nasconderò il volto da loro) e diventerà preda di chi vuole divorarlo e lo incontreranno numerose disgrazie e cose cattive e in quel giorno dirà ‘è perché il mio Dio non è in mezzo a me che mi sono capitate queste brutte cose’. Ma Io avrò nascosto il mio volto in quel giorno per tutto il male che aveva fatto, perché si era rivolto ad altri dei”. (Deuteronomio 31:17-18).
In questo brano c’è la prefigurazione dell’evento (l’abbattersi delle sciagure nazionali, il diventare preda dei nemici), la sua rappresentazione teologica (Dio che si nasconde all’uomo), la constatazione umana dell’abbandono (Dio non è in mezzo a me) e l’interpretazione teologica (il volto si nasconde perché l’uomo si è ri-volto altrove). Che non si vadano a cercare responsabilità divine primarie nel male; questo dipende in primo luogo dall’uomo e dal dono che gli è stato fatto di poter scegliere tra bene e male, tra premio e punizione. E all’uomo viene quindi chiesto di fidarsi e scommettere. Non a caso, in un brano che per molti versi è l’anticipazione di quest’interpretazione del Deuteronomio, la domanda su dove è Dio nasce in un contesto storico preciso: usciti dall’Egitto, dopo tutti i miracoli cui hanno assistito, gli ebrei si trovano nel deserto senza acqua; e allora, immemori e ingrati dei beni precedenti, protestano, fino a minacciare Mosè di lapidazione.
Racconta la Bibbia:
“(Mosè) chiamò quel luogo Massà e Merivà (contesa e lite) per la lite dei figli d’Israele e per aver loro messo alla prova il Signore dicendo: ‘se Dio è in mezzo a noi o no’ ” (Esodo 17:7).
E subito dopo ecco quello che succede:
“Arrivò Amaleq e combattè con Israele a Refidim” (ibid, v. 18).
Amaleq è il nemico mortale perenne d’Israele, senza pietà per i più deboli. Amaleq arriva e colpisce non in un momento qualsiasi, ma quando Israele non è più capace di avvertire la presenza divina dentro di sé. Dio fugge e si nasconde secondo il Deuteronomio dopo che gli ebrei gli si rivoltano contro; ma la prima fuga -quella che apre il varco al nemico divoratore – avviene nella coscienza degli uomini che diventano sordi e incapaci di avvertire la presenza divina. Prima ancora di un volto che si nasconde c’è l’incapacità umana di vederlo quando c’è. L’importanza di questa storia supera il caso isolato, diventa emblematica. Non a caso nella Torà uno dei comandi più importanti che si riferiscono all’uso della memoria, riguarda proprio la storia di Amaleq: “ricorda cosa ti ha fatto Amaleq” (Deuteronomio 25:17). Ricorda cosa ti ha fatto, ma anche che cosa può averlo provocato.
Il celarsi del Deuteronomio non è isolato, ma lo ritroviamo in tanti altri brani biblici,da Isaia (8:17, 54:8), Ezechiele 39 (23,24,29), ai Salmi (“non nascondermi il tuo volto”: 27:9, 102:3, 143:7; e ancora 13:2, 30:8, 44:25 ecc), espressioni di una angoscia e di una ricerca costante. Di fatto il tema del Dio che si nasconde diventa la costante dell’esperienza successiva, specialmente diasporica. Giocando sulla lingua, la radice satar che indica il celarsi (da cui forse anche il mistero) viene riscontrata dai Maestri nel nome dell’eroina biblica Ester: un nome che in realtà dovrebbe essere collegato a Astarte e Aster-Astro, ma che per i Maestri non indica il fulgore ma il buio. Con una consolazione: perché la regina Ester opera in un periodo storico in cui il Volto non è più visibile e accessibile, e per questo può sempre sorgere qualcuno che decide di distruggere l’intero popolo ebraico; ma anche se la presenza diretta, la visione luminosa del volto non c’è più, la presenza divina, la sua provvidenza, la sua assistenza non mancano mai e al momento giusto intervengono nella storia e liberano. Per questo motivo consolatorio e di speranza gli ebrei celebrano ancora oggi (e continueranno a farlo anche quando tutte le altre feste saranno abolite), per una volta all’anno, con gioia fisica quasi sfrenata, la festa del Purim, per segnalare che anche in un regime di volto nascosto la protezione non viene mai meno. E’ sul filo di questa speranza che si gioca un’esperienza drammatica, una domanda con tante risposte sempre insufficienti, una provocazione alla fede che coinvolge quasi quotidianamente la vita di ogni ebreo, che sia religioso o no.
Nel momento in cui lo Stato si accinge a celebrare il Giorno della Memoria, con importanti intenti memoriale ed educativi, lo spirito ebraico partecipa con un ricordo sconsolato e con il peso di una domanda e di una ricerca che ha più di 32 secoli di storia.
Roma, gennaio 2003
RICCARDO DI SEGNI – Rabbino Capo di Roma, Direttore del Collegio Rabbinico Italiano
SE QUESTO E’ UN UOMO
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case;
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia ve lo impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Primo Levi
Se questo è un uomo – Opere Complete -Einaudi
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