mercoledì, Marzo 26, 2025
Storia

INQUADRAMENTO STORICO-AMMINISTRATIVO – Parte Terza –

INQUADRAMENTO STORICO-AMMINISTRATIVO

L’unità d’Italia se contribuì a sanare il grave problema della continuità geografica fra zone diverse per vari aspetti, non ultimo quello politico e sociale, lasciò tuttavia aperto quello di una situazione economica estremamente precaria.

Si intraprese, quindi, una politica di riforme e provvedimenti per sanare l’indigenza, l’ignoranza, la disastrosa situazione edilizia pubblica e privata, l’assetto delle principali vie di comunicazione.

Fra le opposte fazioni politiche fu difficile l’accordo e la collaborazione: persistevano ancora in posizioni assurde i “nostalgici” dei vecchi regimi, mentre da opposto lato liberali, radicali, repubblicani premevano per l’adozione di provvedimenti che, mentre riscattavano la figura dell’Italia agli occhi delle grandi potenze straniere, favorissero pure la progressiva “laicizzazione” dello stato.

Erano questi gli anni in cui il clero ferrarese, nella sua grande maggioranza, era restìo ad accettare come fatto compiuto l’unità d’Italia e le nuove istituzioni. Non pochi sacerdoti risultavano ancora riluttanti; altri, invece (ed erano una sparuta minoranza), vedevano di buon occhio un’intesa pacifica e di tavolino fra Stato e Chiesa nello stesso tempo in cui i primi erano legati alla concezione della legittimità di pretese temporalistiche papali.

L’unità d’Italia se contribuì a sanare il grave problema della continuità geografica fra zone diverse per vari aspetti, non ultimo quello politico e sociale, lasciò tuttavia aperto quello di una situazione economica estremamente precaria.

Si intraprese, quindi, una politica di riforme e provvedimenti per sanare l’indigenza, l’ignoranza, la disastrosa situazione edilizia pubblica e privata, l’assetto delle principali vie di comunicazione.

Fra le opposte fazioni politiche fu difficile l’accordo e la collaborazione: persistevano ancora in posizioni assurde i “nostalgici” dei vecchi regimi, mentre da opposto lato liberali, radicali, repubblicani premevano per l’adozione di provvedimenti che, mentre riscattavano la figura dell’Italia agli occhi delle grandi potenze straniere, favorissero pure la progressiva “laicizzazione” dello stato.

Erano questi gli anni in cui il clero ferrarese, nella sua grande maggioranza, era restìo ad accettare come fatto compiuto l’unità d’Italia e le nuove istituzioni. Non pochi sacerdoti risultavano ancora riluttanti; altri, invece (ed erano una sparuta minoranza), vedevano di buon occhio un’intesa pacifica e di tavolino fra Stato e Chiesa nello stesso tempo in cui i primi erano legati alla concezione della legittimità di pretese temporalistiche papali.

Una tal sorta di tendenza liberale si manifestò a Serravalle nell’allora abate-parroco don Angelo Malandri, spirito liberale ed intraprendente, aperto alle innovazioni anche sociali che avessero come logica conseguenza il miglioramento delle condizioni della propria popolazione, che lo stimava incondizionatamente come paladino della comunità paesana ed il più caldo patrocinatore della istituzione della parrocchia abbaziale di Serravalle. Fu proprio in occasione delle elezioni amministrative del 1862, relative al Comune di Copparo di cui come s’è detto Serravalle a quella data faceva ancora parte, che don Malandri trascinò con sé tutti i parrocchiani a votare nella sezione elettorale di Cologna, credendo nella “necessità di propugnare le libere istituzioni”. Questo fatto singolare non mancò di essere segnalato dalla stampa locale, ma l’azione del Malandri rimase purtroppo slegata dalle prese di posizione di altri suoi confratelli operanti in altri centri del territorio emiliano-romagnolo.

E fuori dubbio tuttavia che la realtà di una forza sociale e, se si vuole, politica dei cattolici, per quanto minima, non poteva essere misconosciuta, soprattutto in quelle zone che prima dell’unità erano sotto il dominio pontificio. Esempi di sacerdoti anche più impegnati politicamente del Malandri, rimasti isolati nel sostegno della “necessità di un atteggiamento più elastico, più realistico e moderno verso i problemi del nostro Paese” è possibile trovarne nel ferrarese, nel bolognese, nella romagna.

L’unità d’Italia se contribuì a sanare il grave problema della continuità geografica fra zone diverse per vari aspetti, non ultimo quello politico e sociale, lasciò tuttavia aperto quello di una situazione economica estremamente precaria.

Si intraprese, quindi, una politica di riforme e provvedimenti per sanare l’indigenza, l’ignoranza, la disastrosa situazione edilizia pubblica e privata, l’assetto delle principali vie di comunicazione.

Fra le opposte fazioni politiche fu difficile l’accordo e la collaborazione: persistevano ancora in posizioni assurde i “nostalgici” dei vecchi regimi, mentre da opposto lato liberali, radicali, repubblicani premevano per l’adozione di provvedimenti che, mentre riscattavano la figura dell’Italia agli occhi delle grandi potenze straniere, favorissero pure la progressiva “laicizzazione” dello stato.

Erano questi gli anni in cui il clero ferrarese, nella sua grande maggioranza, era restìo ad accettare come fatto compiuto l’unità d’Italia e le nuove istituzioni. Non pochi sacerdoti risultavano ancora riluttanti; altri, invece (ed erano una sparuta minoranza), vedevano di buon occhio un’intesa pacifica e di tavolino fra Stato e Chiesa nello stesso tempo in cui i primi erano legati alla concezione della legittimità di pretese temporalistiche papali.

Una tal sorta di tendenza liberale si manifestò a Serravalle nell’allora abate-parroco don Angelo Malandri, spirito liberale ed intraprendente, aperto alle innovazioni anche sociali che avessero come logica conseguenza il miglioramento delle condizioni della propria popolazione, che lo stimava incondizionatamente come paladino della comunità paesana ed il più caldo patrocinatore della istituzione della parrocchia abbaziale di Serravalle. Fu proprio in occasione delle elezioni amministrative del 1862, relative al Comune di Copparo di cui come s’è detto Serravalle a quella data faceva ancora parte, che don Malandri trascinò con sé tutti i parrocchiani a votare nella sezione elettorale di Cologna, credendo nella “necessità di propugnare le libere istituzioni”. Questo fatto singolare non mancò di essere segnalato dalla stampa locale, ma l’azione del Malandri rimase purtroppo slegata dalle prese di posizione di altri suoi confratelli operanti in altri centri del territorio emiliano-romagnolo.

E fuori dubbio tuttavia che la realtà di una forza sociale e, se si vuole, politica dei cattolici, per quanto minima, non poteva essere misconosciuta, soprattutto in quelle zone che prima dell’unità erano sotto il dominio pontificio. Esempi di sacerdoti anche più impegnati politicamente del Malandri, rimasti isolati nel sostegno della “necessità di un atteggiamento più elastico, più realistico e moderno verso i problemi del nostro Paese” è possibile trovarne nel ferrarese, nel bolognese, nella romagna.

Le reazioni in campo cattolico alla politica eversiva del patrimonio ecclesiastico, leggi 7 luglio 1866 e 15 agosto 1867, non tardarono a farsi sentire. Tuttavia, “anche fra i cattolici intransigenti si venne formando la nuova coscienza nazionale, e con essa il desiderio di sanare il dissidio tra chiesa e stato, non secondo le formule del liberalismo politico e col sistema delle Guarentigie, ma con una chiara intesa e reciproche concessioni tra il papa e il re”.

Nella nostra zona, mentre non si perdevano di vista i problemi di ampia portata politica imposti dalla presa di Roma e dal definitivo crollo della temporalità della chiesa, si combatteva per assicurare una dignità di vita alle numerose famiglie di operai e braccianti agricoli, la cui opera era ancora largamente sfruttata nei latifondi. Le speranze nate circa un decennio addietro con l’adesione all’unità nazionale e presenti nell’opera del Malandri e della popolazione, non erano state del tutto concretate in decisi interventi governativi che andassero nella dirczione di una redenzione economica e sociale delle classi meno abbienti. Ciò nonostante iniziò in quegli anni la grande bonificazione ferrarese (1873), che si concluse nel 1909 e contribuì alla produttività dei terreni con il definitivo assestamento del territorio.

E proprio in quel periodo s’assiste ad un grande incremento demografico. Non solo, ma molte famiglie provenienti dal Veneto, sicure di trovare una conveniente occupazione nelle terre appena bonificate si insediarono stabilmente nel territorio del basso ferrarese, ed in modo particolare in centri, come il nostro, situati lungo il Po. La situazione di quei lavoratori rimase però notevolmente depressa.

L’unità d’Italia se contribuì a sanare il grave problema della continuità geografica fra zone diverse per vari aspetti, non ultimo quello politico e sociale, lasciò tuttavia aperto quello di una situazione economica estremamente precaria.

Si intraprese, quindi, una politica di riforme e provvedimenti per sanare l’indigenza, l’ignoranza, la disastrosa situazione edilizia pubblica e privata, l’assetto delle principali vie di comunicazione.

Fra le opposte fazioni politiche fu difficile l’accordo e la collaborazione: persistevano ancora in posizioni assurde i “nostalgici” dei vecchi regimi, mentre da opposto lato liberali, radicali, repubblicani premevano per l’adozione di provvedimenti che, mentre riscattavano la figura dell’Italia agli occhi delle grandi potenze straniere, favorissero pure la progressiva “laicizzazione” dello stato.

Erano questi gli anni in cui il clero ferrarese, nella sua grande maggioranza, era restìo ad accettare come fatto compiuto l’unità d’Italia e le nuove istituzioni. Non pochi sacerdoti risultavano ancora riluttanti; altri, invece (ed erano una sparuta minoranza), vedevano di buon occhio un’intesa pacifica e di tavolino fra Stato e Chiesa nello stesso tempo in cui i primi erano legati alla concezione della legittimità di pretese temporalistiche papali.

Una tal sorta di tendenza liberale si manifestò a Serravalle nell’allora abate-parroco don Angelo Malandri, spirito liberale ed intraprendente, aperto alle innovazioni anche sociali che avessero come logica conseguenza il miglioramento delle condizioni della propria popolazione, che lo stimava incondizionatamente come paladino della comunità paesana ed il più caldo patrocinatore della istituzione della parrocchia abbaziale di Serravalle. Fu proprio in occasione delle elezioni amministrative del 1862, relative al Comune di Copparo di cui come s’è detto Serravalle a quella data faceva ancora parte, che don Malandri trascinò con sé tutti i parrocchiani a votare nella sezione elettorale di Cologna, credendo nella “necessità di propugnare le libere istituzioni”. Questo fatto singolare non mancò di essere segnalato dalla stampa locale, ma l’azione del Malandri rimase purtroppo slegata dalle prese di posizione di altri suoi confratelli operanti in altri centri del territorio emiliano-romagnolo.

E fuori dubbio tuttavia che la realtà di una forza sociale e, se si vuole, politica dei cattolici, per quanto minima, non poteva essere misconosciuta, soprattutto in quelle zone che prima dell’unità erano sotto il dominio pontificio. Esempi di sacerdoti anche più impegnati politicamente del Malandri, rimasti isolati nel sostegno della “necessità di un atteggiamento più elastico, più realistico e moderno verso i problemi del nostro Paese” è possibile trovarne nel ferrarese, nel bolognese, nella romagna.

Le reazioni in campo cattolico alla politica eversiva del patrimonio ecclesiastico, leggi 7 luglio 1866 e 15 agosto 1867, non tardarono a farsi sentire. Tuttavia, “anche fra i cattolici intransigenti si venne formando la nuova coscienza nazionale, e con essa il desiderio di sanare il dissidio tra chiesa e stato, non secondo le formule del liberalismo politico e col sistema delle Guarentigie, ma con una chiara intesa e reciproche concessioni tra il papa e il re”.

Nella nostra zona, mentre non si perdevano di vista i problemi di ampia portata politica imposti dalla presa di Roma e dal definitivo crollo della temporalità della chiesa, si combatteva per assicurare una dignità di vita alle numerose famiglie di operai e braccianti agricoli, la cui opera era ancora largamente sfruttata nei latifondi. Le speranze nate circa un decennio addietro con l’adesione all’unità nazionale e presenti nell’opera del Malandri e della popolazione, non erano state del tutto concretate in decisi interventi governativi che andassero nella dirczione di una redenzione economica e sociale delle classi meno abbienti. Ciò nonostante iniziò in quegli anni la grande bonificazione ferrarese (1873), che si concluse nel 1909 e contribuì alla produttività dei terreni con il definitivo assestamento del territorio.

E proprio in quel periodo s’assiste ad un grande incremento demografico. Non solo, ma molte famiglie provenienti dal Veneto, sicure di trovare una conveniente occupazione nelle terre appena bonificate si insediarono stabilmente nel territorio del basso ferrarese, ed in modo particolare in centri, come il nostro, situati lungo il Po. La situazione di quei lavoratori rimase però notevolmente depressa.

L’inchiesta agraria voluta dalle Camere e dal Governo, e condotta dal 1877 al 1884 sotto la presidenza del senatore Stefano Jacini, provò definitivamente la grande arretratezza dell’agricoltura italiana e la miseria delle classi rurali:

“… Le abitazioni dei lavoratori agricoli attorno al 1880 – come riconoscono i commissari dell’inchiesta agraria, non certo sospetti di sinistrismo – sono, in generale, brutte e antigieniche. Ma le peggiori sono ovunque quelle dei braccianti, che si trovano fuori dai fondi, e alla conservazione dei quali non sono per nulla interessati i proprietari fondiari. Sovente si tratta di tuguri inabitabili, col pavimento in sola argilla, che non proteggono neppure dalle intemperie. Nelle zone depresse e vallive, come nel basso Ferrarese, nel basso Ravennate, nelle zone più basse come nell’Oltrepò mantovano, le abitazioni frequentemente non sono che capanne col muro di terra, ricoperte di canna e di paglia. L’interno delle abitazioni rivela uno squallore impressionante. Se le altre categorie di lavoratori agricoli talvolta godono di una qualche parvenza di conforto, il bracciante avventizio, attorno al 1880, ha ancora a disposizione, per dormire, un semplice cavaletto con pagliericcio, sul quale non si può neppure riposare convenientemente”.

A Serravalle, nel 1880-81, su un totale di 1.444 anime (per complessive 298 famiglie) l’occupazione prevalente dei capifamiglia (n. 181) era quella dei giornalieri, dei braccianti, dei boari; ad essa è da aggiungere quella di altre categorie di lavoratori strettamente dipendenti dall’agricoltura e dalle attività agricole in genere: carrettieri, manzolai, ecc.. Di contro balzano subito nettamente all’evidenza per il numero alquanto inferiore, i 39 nuclei familiari dei possidenti, gli 11 dei dipendenti della fornace ed i 29 degli artigiani, i 7 dei commer

L’unità d’Italia se contribuì a sanare il grave problema della continuità geografica fra zone diverse per vari aspetti, non ultimo quello politico e sociale, lasciò tuttavia aperto quello di una situazione economica estremamente precaria.

Si intraprese, quindi, una politica di riforme e provvedimenti per sanare l’indigenza, l’ignoranza, la disastrosa situazione edilizia pubblica e privata, l’assetto delle principali vie di comunicazione.

Fra le opposte fazioni politiche fu difficile l’accordo e la collaborazione: persistevano ancora in posizioni assurde i “nostalgici” dei vecchi regimi, mentre da opposto lato liberali, radicali, repubblicani premevano per l’adozione di provvedimenti che, mentre riscattavano la figura dell’Italia agli occhi delle grandi potenze straniere, favorissero pure la progressiva “laicizzazione” dello stato.

Erano questi gli anni in cui il clero ferrarese, nella sua grande maggioranza, era restìo ad accettare come fatto compiuto l’unità d’Italia e le nuove istituzioni. Non pochi sacerdoti risultavano ancora riluttanti; altri, invece (ed erano una sparuta minoranza), vedevano di buon occhio un’intesa pacifica e di tavolino fra Stato e Chiesa nello stesso tempo in cui i primi erano legati alla concezione della legittimità di pretese temporalistiche papali.

Una tal sorta di tendenza liberale si manifestò a Serravalle nell’allora abate-parroco don Angelo Malandri, spirito liberale ed intraprendente, aperto alle innovazioni anche sociali che avessero come logica conseguenza il miglioramento delle condizioni della propria popolazione, che lo stimava incondizionatamente come paladino della comunità paesana ed il più caldo patrocinatore della istituzione della parrocchia abbaziale di Serravalle. Fu proprio in occasione delle elezioni amministrative del 1862, relative al Comune di Copparo di cui come s’è detto Serravalle a quella data faceva ancora parte, che don Malandri trascinò con sé tutti i parrocchiani a votare nella sezione elettorale di Cologna, credendo nella “necessità di propugnare le libere istituzioni”. Questo fatto singolare non mancò di essere segnalato dalla stampa locale, ma l’azione del Malandri rimase purtroppo slegata dalle prese di posizione di altri suoi confratelli operanti in altri centri del territorio emiliano-romagnolo.

E fuori dubbio tuttavia che la realtà di una forza sociale e, se si vuole, politica dei cattolici, per quanto minima, non poteva essere misconosciuta, soprattutto in quelle zone che prima dell’unità erano sotto il dominio pontificio. Esempi di sacerdoti anche più impegnati politicamente del Malandri, rimasti isolati nel sostegno della “necessità di un atteggiamento più elastico, più realistico e moderno verso i problemi del nostro Paese” è possibile trovarne nel ferrarese, nel bolognese, nella romagna.

Le reazioni in campo cattolico alla politica eversiva del patrimonio ecclesiastico, leggi 7 luglio 1866 e 15 agosto 1867, non tardarono a farsi sentire. Tuttavia, “anche fra i cattolici intransigenti si venne formando la nuova coscienza nazionale, e con essa il desiderio di sanare il dissidio tra chiesa e stato, non secondo le formule del liberalismo politico e col sistema delle Guarentigie, ma con una chiara intesa e reciproche concessioni tra il papa e il re”.

Nella nostra zona, mentre non si perdevano di vista i problemi di ampia portata politica imposti dalla presa di Roma e dal definitivo crollo della temporalità della chiesa, si combatteva per assicurare una dignità di vita alle numerose famiglie di operai e braccianti agricoli, la cui opera era ancora largamente sfruttata nei latifondi. Le speranze nate circa un decennio addietro con l’adesione all’unità nazionale e presenti nell’opera del Malandri e della popolazione, non erano state del tutto concretate in decisi interventi governativi che andassero nella dirczione di una redenzione economica e sociale delle classi meno abbienti. Ciò nonostante iniziò in quegli anni la grande bonificazione ferrarese (1873), che si concluse nel 1909 e contribuì alla produttività dei terreni con il definitivo assestamento del territorio.

E proprio in quel periodo s’assiste ad un grande incremento demografico. Non solo, ma molte famiglie provenienti dal Veneto, sicure di trovare una conveniente occupazione nelle terre appena bonificate si insediarono stabilmente nel territorio del basso ferrarese, ed in modo particolare in centri, come il nostro, situati lungo il Po. La situazione di quei lavoratori rimase però notevolmente depressa.

L’inchiesta agraria voluta dalle Camere e dal Governo, e condotta dal 1877 al 1884 sotto la presidenza del senatore Stefano Jacini, provò definitivamente la grande arretratezza dell’agricoltura italiana e la miseria delle classi rurali:

“… Le abitazioni dei lavoratori agricoli attorno al 1880 – come riconoscono i commissari dell’inchiesta agraria, non certo sospetti di sinistrismo – sono, in generale, brutte e antigieniche. Ma le peggiori sono ovunque quelle dei braccianti, che si trovano fuori dai fondi, e alla conservazione dei quali non sono per nulla interessati i proprietari fondiari. Sovente si tratta di tuguri inabitabili, col pavimento in sola argilla, che non proteggono neppure dalle intemperie. Nelle zone depresse e vallive, come nel basso Ferrarese, nel basso Ravennate, nelle zone più basse come nell’Oltrepò mantovano, le abitazioni frequentemente non sono che capanne col muro di terra, ricoperte di canna e di paglia. L’interno delle abitazioni rivela uno squallore impressionante. Se le altre categorie di lavoratori agricoli talvolta godono di una qualche parvenza di conforto, il bracciante avventizio, attorno al 1880, ha ancora a disposizione, per dormire, un semplice cavaletto con pagliericcio, sul quale non si può neppure riposare convenientemente”.

A Serravalle, nel 1880-81, su un totale di 1.444 anime (per complessive 298 famiglie) l’occupazione prevalente dei capifamiglia (n. 181) era quella dei giornalieri, dei braccianti, dei boari; ad essa è da aggiungere quella di altre categorie di lavoratori strettamente dipendenti dall’agricoltura e dalle attività agricole in genere: carrettieri, manzolai, ecc.. Di contro balzano subito nettamente all’evidenza per il numero alquanto inferiore, i 39 nuclei familiari dei possidenti, gli 11 dei dipendenti della fornace ed i 29 degli artigiani, i 7 dei commercianti ed i 2 degli insegnanti elementari, i 2 dei liberi professionisti (dottore e farmacista), quello del sacerdote ed i 26 degli impegnati in attività miste, stagionali, e non propriamente ascrivibili a quelle appena citate. Una popolazione dunque, quella di Serravalle, pienamente integrata e dipendente dal tessuto agricolo, certamente ancora condotto con mezzi e metodi antiquati, per quanto i progressi della chimica agricola e della meccanizzazione, e della bonifica dei territori, avessero contribuito alla redenzione seppur minima delle terre e degli operai, e all’incremento delle produzioni unitarie delle singole colture. Tuttavia, la situazione economica di quegli anni ebbe a peggiorare. La povertà presente negli strati bracciantili ed operai della popolazione delle zone agricole era accresciuta oltre che dalle imposte anche dai progressivi scarsi raccolti granari degli anni ’90, culminati nel 1897 in un vero e proprio crollo, che non mancò, di conseguenza, di provocare allarme nella popolazione e, non ultimo, i grandi moti popolari del maggio 1898 in Milano.

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